sabato 5 marzo 2016

TEMPO E DENARO, PERSI

Il sommarsi del debito enorme alla deflazione è venefico. Dobbiamo stare molto attenti a non sprecare l’anno in corso, così come si è già sprecato il tempo acquistato dalla Banca centrale europea. Reclamare l’elasticità per non dovere ridurre la spesa e non dovere far scattare le clausole di salvaguardia non è la cura, ma l’aggravarsi del male. Un Paese che perde produttività, ha un tasso di occupazione molto basso e una pressione fiscale satanica non esce dalla trappola chiedendo di continuare a galleggiare in quelle pozze. Deve fuggirne. Si può fare, ma cambiando approccio.La politica monetaria espansiva può continuare, ma non è risolutiva. Mario Draghi lo aveva detto fin dall’inizio, ma ogni giorno ne arriva conferma. I governi nazionali devono accompagnarla liberalizzando, incentivando gli investimenti e abbassando considerevolmente la pressione fiscale. Questo, nell’immediato, crea disavanzo, che poi diventa debito. Ma il debito non è sempre uguale, una cosa è farlo per investimenti, altra per spese correnti. Indebitarsi per andare al casinò è una cosa, farlo per comprare macchinari produttivi tutt’altra. Non c’è ragione per cui l’Italia venga considerata più a rischio se riprende a investire, mentre è ragionevolissimo che desti allarme se continua a consumare e consumarsi nel nulla.
Dobbiamo stare molto attenti a non animare la solita diatriba ideologica attorno a una questione maledettamente pratica: la spesa pubblica corrente, ivi compresa quella per i bonus a nulla, è colesterolo cattivo, capace di occludere il sistema circolatorio; la spesa per investimenti è colesterolo buono, capace di fluidificarlo. Nel 2015 (dati Istat diffusi ieri), la spesa delle pubblica amministrazioni è stata pari al 50.4% del prodotto interno lordo, la parte corrente ha raggiunto il 46.4% del pil. L’avanzo primario (prima del pagamento degli interessi sul debito pubblico) è stato dell’1.5%, sempre in rapporto al pil, più basso dello 0.1 rispetto al 2014. Come si vede, quindi, il malato è stabile. Essendo un


malato grave, la stabilità significa che non migliora.Gli investimenti, del resto, non sono tutti uguali. Se spendi i soldi di Cassa depositi e prestiti, come è purtroppo accaduto, per comprare società da altre aziende statali, salvo assistere al crollo del loro valore, fai operazioni di potere che si traducono in impoverimento collettivo, incapaci di generare quale che sia vantaggio. Se investi in infrastrutture, dalle comunicazioni alla digitalizzazione della pubblica amministrazione, invece, può avere un effetto propulsore. Ma non si creerà lavoro buono se non cancellando quello cattivo. Non si può promuovere lo sviluppo lasciando intonsa la rendita. Dalla sanità alla scuola, si possono adottare modelli che aumentano la qualità dei servizi riducendo la spesa corrente. Ma per farlo devi aprire alla concorrenza, il che significa chiudere le rendite del presente. Se, invece, chiami “riforma” della scuola l’assunzione senza concorso, se non controlli la qualità del servizio erogato, finanziando i meritevoli al pari dei ciuchi e delle gazze ladre, i soldi saranno vaporizzati in un dominio d’insipienza e in un crescendo di dissipazione. L’aggiungersi delle ruberia non fa che colorare il quadro. Il governo s’incaponisce a chiedere “flessibilità”, ma allo scopo di non correggere i conti. Mette in cantiere privatizzazioni (dalle poste alle ferrovie) che non cambiano di un capello il mercato, ma producono (nei fatti e nelle intenzioni) liquidità con cui alimentare il tumore assassino. Regala soldi che non tornano nei consumi, neanche a prezzi decrescenti, perché financo i beneficiari avvertono la dissennatezza e li risparmiano (la raccolta è aumentata, mentre la ricchezza prodotta diminuiva), ove non siano costretti a spenderli per finanziare le imposte locali e il crescere delle tariffe amministrate. Che finanziano rendite municipalizzate. Quella flessibilità, ove conquistata, ci piegherà irrimediabilmente. Sarebbe assai diverso se potessimo dimostrare che gli impieghi utili di denaro investito si accompagnano a tagli profondi, sistemici e permanenti della spesa corrente improduttiva. Fin qui non si vedono. Si favoleggia di grandi riforme fatte e sgravi fiscali futuri, o marginali e riassorbiti da altre imposizioni. Fin qui sono cresciute sia la spesa pubblica (nonostante il ribasso degli interessi sul debito, che dobbiamo alla Bce) che la pressione fiscale. Questi sono i dati del tempo sprecato. Per cambiare rotta abbiamo l’anno in corso. Se lo si facesse varrebbe la pena di far convergere consensi ampi. Se non lo si fa, come non si sta facendo, l’egoismo di pochi e l’inconsapevolezza di molti dilapideranno il tempo di tutti. Davide Giacalone

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