sabato 4 dicembre 2010

SCHIAFFO ALLA CAMERA, VERTICE FINI, CASINI, RUTELLI E LOMBARDO NELL’UFFICIO DI FINI.

La notizia, anzi lo scandalo, non è l’incontro di ieri tra Fini, Casini e Rutelli per cercare di fare la festa al governo, ma il luogo dove si è svolto: l’ufficio del presidente della Camera. Che non ha ritenuto di salvare la faccia sua e dell’istituzione che rappresenta dando appuntamento ai suoi interlocutori in un posto diverso, più consono ad una riunione di quel tipo, che più di parte e di lotta non poteva essere. Bisognava infatti discutere e predisporre la presentazione di una comune mozione di sfiducia a Berlusconi. È mancato al presidente della Camera quel senso di pudore istituzionale da lui rivendicato, per esempio, nella scorsa primavera per sottrarsi alla manifestazione conclusiva della campagna elettorale regionale del Pdl. O per dare poi appuntamento conviviale al presidente del Consiglio in un albergo, anziché alla Camera, per discutere dei problemi del loro ancora comune partito e, più in generale, della situazione politica.

Il rispetto di Fini per la carica che ricopre, la terza dopo quelle del presidente della Repubblica e del presidente del Senato, è stato a giorni o a periodi alterni durante la sua lunga e defatigante polemica con il presidente del Consiglio, sino a finire ieri letteralmente nel cestino. Dove continuo a ritenere, magari con l’ingenuità o la dabbenaggine di un ormai vecchio cronista politico, che l’eccellentissimo signor presidente della Repubblica debba decidersi a dare un’occhiata, o a mettere le mani, non foss’altro per evitare di rimanere personalmente coinvolto, alla sua età e con la sua storia, in una vicenda come questa. Stupisce, ma forse fino a un certo punto, che all’insolito spettacolo di ieri abbiano partecipato senza avvertire alcun disagio due uomini dai trascorsi istituzionali come Casini e Rutelli. Il primo ha infatti presieduto la Camera dal 2001 al 2006, non rinunciando certo a fare politica neppure lui ma lasciandone i riti peggiori fisicamente fuori dal suo ufficio di Montecitorio.

L’altro ha presieduto per un po’ in questa legislatura la più delicata e istituzionale delle commissioni bicamerali. Che è il comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, oggi guidato purtroppo da D’Alema con uno spirito e un ghigno che gli saranno magari abituali ma non mi sembrano francamente appropriati a uno statista quale egli vorrebbe essere considerato per avere diretto una importante, seppure sfortunata, commissione bicamerale di riforma della Costituzione, due governi avventurosamente succedutisi in meno di due anni, fra il 1998 e il 2000, e il Ministero degli Esteri del secondo ed ultimo Gabinetto di Prodi. Per la Farnesina, in verità, è passato anche Fini prima di approdare al vertice della Camera su designazione non dello Spirito Santo, come qualche suo amico mostra di ritenere, ma di quella carogna politica, o quasi, che viene oggi considerato da quelle parti il povero Berlusconi. Che si aspettava di ricevere in cambio non dico un po’ di gratitudine, perché la politica ne prescinde, ma almeno un po’ di rispetto istituzionale e diplomatico. Gli è venuta invece da Fini già il 7 novembre scorso una perentoria e plateale richiesta di dimissioni alla vigilia di una sessione parlamentare di bilancio, messa in salvo per fortuna da un intervento del capo dello Stato, e di un vertice internazionale come il G20 in Corea. Di cui un presidente della Camera ed ex ministro degli Esteri non avrebbe dovuto ignorare l’importanza. Lo stile, come si sa, fa l’uomo.

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