Di Renato Brunetta – La luna di miele per Mario
Monti è finita. Almeno per quattro ragioni. Uno: l’overshooting, vale a dire il
sovradimensionamento delle misure di politica economica da lui adottate. Due:
l’abuso del linguaggio salvifico (“Salva Italia”, “Cresci Italia”, “Semplifica
Italia”), con relativa retorica dell’effetto annuncio. Tre: l’effetto boomerang,
cioè il costo pagato dal Paese a causa dei due comportamenti precedenti.
Quattro: l’azzardo morale. Siamo all’interno di una particolarissima fase
politica: ambiziosa ma deresponsabilizzante, in cui se va bene vince il
governo, ma se va male perdono i partiti che lo sostengono. Risultato: perdita
di credibilità, perdita di reputazione, costi dell’intera operazione più alti
dei benefici ottenuti. Democraticamente insostenibile, ivi compreso
l’insopportabile pedagogismo autoritario dalla faccia gentile.Questo spiega la
fine della luna di miele per Mario Monti. Ma andiamo con ordine. Dalla nomina a
senatore a vita, alla nascita del suo governo di salvezza nazionale: il tutto
avvolto da una bolla mediatica universalmente positiva, a prescindere… Fino al
crescendo rossiniano del 27 marzo, quando il Wall Street Journal lo paragona
addirittura a Margaret Thatcher. Per più di quattro mesi abbiamo cercato di
spiegare che le misure di austerità varate da Monti nel suo primo
provvedimento, il cosiddetto “Salva Italia”, avrebbero avuto effetti recessivi
sull’economia reale; ma intorno al governo tecnico si era creato un consenso
talmente forte che poco importavano le nostre preoccupazioni. Dopo cinque mesi
i giornali, forse, hanno capito la manovra. E hanno capito anche che la spinta
mediatica positiva, a differenza di quella negativa che aveva avvolto e
sconvolto il governo Berlusconi, non è riuscita a influenzare l’andamento
dell’economia reale. Anzi, tutto va male, continua ad andare male. Sempre
peggio. Lo spread risale, l’inflazione sale, la disoccupazione aumenta,
diminuiscono pil e produzione industriale e c’è un eccesso di pressione
fiscale. Così si è ricreduto anche il Wall Street Journal, e ha ritrattato il
generoso complimento che solo quindici giorni fa aveva rivolto al Presidente
del Consiglio. Motivo: l’aver ceduto, Monti, ai sindacati sull’articolo 18 (con
buona pace del forneriano “non siamo qui per distribuire caramelle”). Ma il
problema non è solo l’articolo 18. Sul piano economico, le misure di austerità
varate dal governo hanno avuto un effetto recessivo tale da annullare i
risultati positivi attesi. Spesso il governo ha sbagliato addirittura a far di
conto. Sull’Imu,
sugli esodati, sull’evasione fiscale. Se sulla
riforma delle pensioni bastava fare l’ultimo miglio e completare quella
precedente, perché si è calcato tanto la mano? L’esagerazione non solo ha
prodotto 300mila esodati, ma non potrà avere ripercussioni in tema di
produttività dei lavoratori e di squilibri nei flussi in entrata. L’Imu non è
ancora arrivata a scadenza, ma l’allarme sociale è alto. Ci troviamo davanti a
una vera e propria patrimoniale che porta a un insopportabile drenaggio del
reddito disponibile delle famiglie, in particolare quelle monoreddito, degli
anziani e della massa (oltre l’80%) dei proprietari di prime e di seconde case,
non certamente ricchi.
Lo stesso dicasi sulla lotta all’evasione fiscale,
che è una cosa seria, strutturale, che non si fa con il terrorismo psicologico
né con le spettacolarizzazioni in stile Cortina. Per non parlare dell’aumento
dell’Iva che, pur posposto all’autunno, porta un aumento dell’inflazione da
aspettative. Da subito.
L’overshooting fa fare bella figura nel breve, ma
nel lungo termine i nodi vengono al pettine. E la credibilità, nazionale e
internazionale, è la prima a risentirne. La colpa, però, anche questa volta non
è solo di Monti. I ”comportamenti fuori misura” sono frutto di un governo non
eletto dal popolo, sono l’espressione tangibile della oggettiva irresponsabilità
di chi non deve fare i conti con il Paese, di chi gode di una sorta di impunità
che, però, è solo apparente.
Inoltre, l’assenza della politica spiana la strada
alle peggiori burocrazie, che, senza filtro, entrano direttamente nel processo
decisionale-amministrativo, difendendo se stesse, gli interessi delle
corporazioni, manifestando nel contempo macroscopiche inadeguatezze.
Dopo pensioni, Imu e aumento della pressione
fiscale, si è anche esagerato, in senso opposto, cioè con l’abuso dell’effetto
annuncio, sulle liberalizzazioni, strombazzate ma non fatte; sulle
semplificazioni, in linea con quelle avviate dal precedente governo, ma
amplificate in maniera smisurata; e sulla riforma del lavoro, anch’essa
promessa, minacciata, ma penosamente non realizzata. In quest’ultimo caso, non
siamo in presenza di una riforma ma solo di una forte incertezza rispetto alla
grande quantità dei contratti atipici in essere, per cui le imprese non sanno
più che cosa fare. Con il bel risultato che molto probabilmente si bloccherà
tutto, con prevalenza dei licenziamenti sulle assunzioni.
Il Paese perde sia quando le misure vengono
realizzate, sia quando restano sulla carta. Si perde perché quello di Monti è
un governo anomalo, non democraticamente eletto, quindi irresponsabile. Mancano,
semplicemente, i meccanismi di controllo politico del consenso, grazie ai
quali, invece, i governi eletti, per quanto a volte meno sexy, riescono a
schivare gli effetti perversi. L’unico risultato concreto è il potere, anche
questo eccessivo, lasciato alle burocrazie conservatrici: alle lobby della
Ragioneria Generale dello Stato, del ministero del Tesoro, delle Finanze, dello
Sviluppo Economico, del Lavoro, del Welfare, delle Infrastrutture, del
Mezzogiorno, degli Esteri.
Che morale trarre da tutto questo? Gli esecutivi
frutto della democrazia rappresentativa, con tutti i loro difetti e con tutte
le loro approssimazioni, sono superiori rispetto a qualsiasi governo tecnico
perché fruiscono di un fisiologico sistema di premi e sanzioni per governare con
il consenso. La controprova: se i governi tecnici fossero davvero tanto buoni,
tanto bravi e tanto efficienti, perché nella storia delle nostre democrazie
moderne e contemporanee non si sono affermati come modello universale? Si
pensava che fossero la forma più adatta nelle situazioni di emergenza, ma
l’esperienza italiana sta dimostrando il contrario.
Tutto questo neIl’afasia italiana nei confronti
dei veri responsabili del disastro in atto, dell’inadeguata governance europea,
tanto nella versione egemonica ed egoistica del duo Merkel-Sarkozy, quanto in
quella banal-burocratica del trio Barroso-Van Rompuy-Ashton.
E se in Italia, come in Europa, tornasse la
politica, la buona politica?
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