Ha fatto bene Libero a riproporre l’elenco
degli ottocento vip di sinistra pronti a linciare il commissario Luigi
Calabresi. Lo considero un documento di valore storico. La testimonianza più veritiera
di un’epoca orribile dove troppi intellettuali, o presunti tali, non provarono
vergogna nell’indicare un cittadino senza colpe come un mostro da eliminare.
Nello stesso tempo, la lista del disonore mi ha costretto a pormi una domanda:
quell’epoca è davvero finita? Oppure ben poco è cambiato nei quarant’anni che
ci separano dall’assassinio di Calabresi? La
mia risposta è che non sia cambiato quasi nulla. È rimasto intatto il vizio
italiano di costruirsi un nemico, per poi isolarlo e abbatterlo. Non sto
parlando del conflitto politico che può essere molto duro. Ma di una malattia
più profonda che spinge a comportamenti demenziali. E trasforma tutti in
apprendisti assassini che, con le parole e gli scritti, mimano di continuo il
gesto di dare una morte violenta a chi non è uguale a te. È un ributtante gioco di ruolo che abbiamo visto applicato dalla
sinistra contro Silvio Berlusconi. Per diciassette anni, il Cavaliere è
stato l’uomo nero di tante fazioni rosse. Un
criminale da giustiziare, un dittatore da uccidere. Anch’io, all’inizio, ho
partecipato a questo rito di massa. Quando ho cominciato a rifiutarmi di
bruciare il fantoccio di Silvio, mi sono reso conto che milioni di persone
continuavano l’assalto. Un film di Nanni Moretti, Il Caimano, ce lo rammenta
ancora oggi. A sua volta la destra ha odiato Romano Prodi, prima ancora che
scendesse in campo per tentare di sconfiggere Berlusconi in una competizione
elettorale. I giornali del biennio 1995-1996 sono lì a testimoniare
un’avversione profonda per il Professore. Un bacchettone sadico. Capace di
godere del dolore degli altri. Un politico a metà fra l’anelito marxista e
qualche predicozzo da monsignore. Una mummia cattocomunista. Un Robin Hood al
contrario, sempre disposto a prendere ai poveri
per darlo ai ricchi, ad Agnelli, a De Benedetti, alle grandi banche. Tuttavia,
ai danni del Professore la teoria della necessità di costruirsi un nemico ha
presentato una variante singolare. Anche a sinistra Prodi è stato bollato con
asprezza volgare. Persino Max D’alema, che pure lo aveva sostenuto al tempo del
suo primo governo (1996-1998), si scatenò contro di lui. Accadde quando il
Professore, ormai ex premier, si propose di fondare un proprio gruppo politico:
i Democratici, con il simbolo dell’asinello. Nel marzo 1999, parlando a un
congresso dei Verdi a Montecatini, D’alema, in quel momento successore di Prodi
a Palazzo Chigi, irrise la ricetta politica del Prof così: «Ci mettiamo un po’
di ambientalismo, che va di moda. Poi un po’di sinistra, ma per carità alla
Tony Blair che è sufficientemente lontano da noi. Infine un po’ di
cattolicesimo popolare e un po’ di giustizialismo, altro tema di moda». Tre
giorni dopo, Ellekappa, la vignettista dell’Unità, oggi in forza tutti i santi
giorni su Repubblica, cominciò a storpiare il nome di Prodi, chiamandolo Frodi.
Nel frattempo, il Professore diventava il nemico di molti elettori dell’ulivo,
infuriati perché non si era accordato con Rifondazione comunista. In
quell’epoca lavoravo all’espresso e ricevetti un fiume di lettere contro di
lui. Una soprattutto mi colpì, perché rappresentava l’applicazione pratica
della teoria sull’amico che diventa nemico. Era firmata da quattordici «ex
ulivisti» e dipingeva Prodi con una volgarità senza limiti: «Prete spretato, falso
Andreotti, cattolico rancoroso, vendicativo uomo di chiesa. Ombroso.
Antipatico. Ipocrita. Voltafaccia. Banderuola. Solo una colpa abbiamo: quella
di averlo stimato e sostenuto. Ai preti spretati nascono spesso figli ciechi. È
quello che auguriamo a Prodi».
Era andata molto peggio a Bettino Craxi. Dalla
pioggia di monetine in poi, divenne il Nemico pubblico numero uno di una
quantità di partiti e di fazioni. Oggi il leader del Psi è scomparso da tempo.
Ma se fosse ancora vita, l’essere un politico a riposo non lo salverebbe
dall’odio di chi cerca a tutti i costi un avversario da distruggere. Lo
conferma il fatto che qualunque tentativo di rileggere la storia di Craxi con
un minimo di distacco viene dissuaso dall’insorgere di una rabbia irrazionale. Mi
domando che cosa potrà accadere in futuro a Mario Monti, il premier in carica.
Non è vero che abbia dalla sua parte tutta l’informazione. Lo testimonia anche
Libero. Ma questo appartiene alla normale dialettica pubblica. Non è così per
l’assalto condotto dalle fazioni lunatiche della sinistra: l’Idv di Tonino Di
Pietro, la Sel di Nichi Vendola, Rifondazione comunista di Paolo Ferrero, il
partitino di Oliviero Diliberto, ammesso che esista ancora.
Forse il professor Monti non era preparato a una lotta politica fondata sul principio del nemico da abbattere. Penso, e mi auguro, che terrà duro. Ha il carattere, l’astuzia e l’intelligenza per riuscirci. Ma non è un affare da poco sperimentare per la prima volta nella vita la volgarità minacciosa degli attacchi personali. Robaccia che ti conferma la sensazione di essere un bersaglio da annientare.
Forse il professor Monti non era preparato a una lotta politica fondata sul principio del nemico da abbattere. Penso, e mi auguro, che terrà duro. Ha il carattere, l’astuzia e l’intelligenza per riuscirci. Ma non è un affare da poco sperimentare per la prima volta nella vita la volgarità minacciosa degli attacchi personali. Robaccia che ti conferma la sensazione di essere un bersaglio da annientare.
Se ne sta accorgendo il capo della Procura di
Torino, Gian Carlo Caselli. Aveva una lunga esperienza delle minacce del
terrorismo brigatista e della mafia. Ma oggi sembra in preda allo sconcerto nel
vedersi inseguito dai gruppi della sinistra antagonista. Si lamenta, invoca la
civiltà del dibattito. Tuttavia non ha battuto ciglio quando altri si
trovavano, e ancora si trovano, alla prese con lo stesso genere di violenza. Chi
deve stare molto attento a non alimentare la caccia al nemico è il più forte
dei sindacati italiani, la Cgil. Confesso di non nutrire alcuna simpatia per il
suo leader, Susanna Camusso. Capisco che avere alle costole un avversario
interno come la Fiom di Maurizio Landini non sia comodo. Ma ho l’impressione
che la sua politica, non soltanto sull’articolo 18, sia molto rischiosa per la
pace sociale del paese. Almeno quanto i licenziamenti e la chiusura di aziende.
La Camusso e il gruppo dirigente della Cgil hanno
scelto la strada degli slogan incendiari. Il contrario di quanto sarebbe saggio
fare in un’epoca di recessione molto difficile e che potrebbe durare a lungo.
La compagna Susanna sta alimentando una rozza lotta di classe. Rivolta contro
chiunque guadagni più di un operaio o di un impiegato. È questo presunto ricco
l’uomo nero da indicare al disprezzo del proletariato, in un parola da
identificare nel nemico. Dove può condurre la strada dell’agitazione
ininterrotta che la Cgil sembra voler perseguire? Lo sbocco è uno solo: il
rischio di intossicare il clima del paese. E senza nessuna contropartita, se
non quella di innescare una reazione uguale e contraria dei moderati.
Anche il più inerte degli avversari tollera un primo colpo, poi un secondo e pure un terzo. Ma alla fine si sveglia perché l’istinto a sopravvivere non può essere represso all’infinito. Un vecchio detto consiglia: temete l’ira dei calmi.
Anche il più inerte degli avversari tollera un primo colpo, poi un secondo e pure un terzo. Ma alla fine si sveglia perché l’istinto a sopravvivere non può essere represso all’infinito. Un vecchio detto consiglia: temete l’ira dei calmi.
Quando vedo alla televisione la signora Camusso,
con i suoi formidabili occhi azzurri e la mascella quadrata, mentre lancia
slogan di battaglia, vengo colto da un sospetto. Forse la leader della Cgil non
ha imparato nulla dalla storia italiana di questo dopoguerra. Luciano Lama
diceva: «Chi tratta vince». Sono tentato di aggiungere: «Chi grida perde». E
qualche volta scompare nell’incendio che lui stesso ha acceso. da
Libero del 1/4/2012
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