martedì 3 aprile 2012

IL VIZIO TUTTO NOSTRO DI CREARCI IL NEMICO



Ha fatto bene Libero a riproporre l’elenco degli ottocento vip di sinistra pronti a linciare il commissario Luigi Calabresi. Lo considero un documento di valore storico. La testimonianza più veritiera di un’epoca orribile dove troppi intellettuali, o presunti tali, non provarono vergogna nell’indicare un cittadino senza colpe come un mostro da eliminare. Nello stesso tempo, la lista del disonore mi ha costretto a pormi una domanda: quell’epoca è davvero finita? Oppure ben poco è cambiato nei quarant’anni che ci separano dall’assassinio di Calabresi? La mia risposta è che non sia cambiato quasi nulla. È rimasto intatto il vizio italiano di costruirsi un nemico, per poi isolarlo e abbatterlo. Non sto parlando del conflitto politico che può essere molto duro. Ma di una malattia più profonda che spinge a comportamenti demenziali. E trasforma tutti in apprendisti assassini che, con le parole e gli scritti, mimano di continuo il gesto di dare una morte violenta a chi non è uguale a te. È un ributtante gioco di ruolo che abbiamo visto applicato dalla sinistra contro Silvio Berlusconi. Per diciassette anni, il Cavaliere è stato l’uomo nero di tante fazioni rosse. Un criminale da giustiziare, un dittatore da uccidere. Anch’io, all’inizio, ho partecipato a questo rito di massa. Quando ho cominciato a rifiutarmi di bruciare il fantoccio di Silvio, mi sono reso conto che milioni di persone continuavano l’assalto. Un film di Nanni Moretti, Il Caimano, ce lo rammenta ancora oggi. A sua volta la destra ha odiato Romano Prodi, prima ancora che scendesse in campo per tentare di sconfiggere Berlusconi in una competizione elettorale. I giornali del biennio 1995-1996 sono lì a testimoniare un’avversione profonda per il Professore. Un bacchettone sadico. Capace di godere del dolore degli altri. Un politico a metà fra l’anelito marxista e qualche predicozzo da monsignore. Una mummia cattocomunista. Un Robin Hood al


contrario, sempre disposto a prendere ai poveri per darlo ai ricchi, ad Agnelli, a De Benedetti, alle grandi banche. Tuttavia, ai danni del Professore la teoria della necessità di costruirsi un nemico ha presentato una variante singolare. Anche a sinistra Prodi è stato bollato con asprezza volgare. Persino Max D’alema, che pure lo aveva sostenuto al tempo del suo primo governo (1996-1998), si scatenò contro di lui. Accadde quando il Professore, ormai ex premier, si propose di fondare un proprio gruppo politico: i Democratici, con il simbolo dell’asinello. Nel marzo 1999, parlando a un congresso dei Verdi a Montecatini, D’alema, in quel momento successore di Prodi a Palazzo Chigi, irrise la ricetta politica del Prof così: «Ci mettiamo un po’ di ambientalismo, che va di moda. Poi un po’di sinistra, ma per carità alla Tony Blair che è sufficientemente lontano da noi. Infine un po’ di cattolicesimo popolare e un po’ di giustizialismo, altro tema di moda». Tre giorni dopo, Ellekappa, la vignettista dell’Unità, oggi in forza tutti i santi giorni su Repubblica, cominciò a storpiare il nome di Prodi, chiamandolo Frodi. Nel frattempo, il Professore diventava il nemico di molti elettori dell’ulivo, infuriati perché non si era accordato con Rifondazione comunista. In quell’epoca lavoravo all’espresso e ricevetti un fiume di lettere contro di lui. Una soprattutto mi colpì, perché rappresentava l’applicazione pratica della teoria sull’amico che diventa nemico. Era firmata da quattordici «ex ulivisti» e dipingeva Prodi con una volgarità senza limiti: «Prete spretato, falso Andreotti, cattolico rancoroso, vendicativo uomo di chiesa. Ombroso. Antipatico. Ipocrita. Voltafaccia. Banderuola. Solo una colpa abbiamo: quella di averlo stimato e sostenuto. Ai preti spretati nascono spesso figli ciechi. È quello che auguriamo a Prodi».
Era andata molto peggio a Bettino Craxi. Dalla pioggia di monetine in poi, divenne il Nemico pubblico numero uno di una quantità di partiti e di fazioni. Oggi il leader del Psi è scomparso da tempo. Ma se fosse ancora vita, l’essere un politico a riposo non lo salverebbe dall’odio di chi cerca a tutti i costi un avversario da distruggere. Lo conferma il fatto che qualunque tentativo di rileggere la storia di Craxi con un minimo di distacco viene dissuaso dall’insorgere di una rabbia irrazionale. Mi domando che cosa potrà accadere in futuro a Mario Monti, il premier in carica. Non è vero che abbia dalla sua parte tutta l’informazione. Lo testimonia anche Libero. Ma questo appartiene alla normale dialettica pubblica. Non è così per l’assalto condotto dalle fazioni lunatiche della sinistra: l’Idv di Tonino Di Pietro, la Sel di Nichi Vendola, Rifondazione comunista di Paolo Ferrero, il partitino di Oliviero Diliberto, ammesso che esista ancora.
Forse il professor Monti non era preparato a una lotta politica fondata sul principio del nemico da abbattere. Penso, e mi auguro, che terrà duro. Ha il carattere, l’astuzia e l’intelligenza per riuscirci. Ma non è un affare da poco sperimentare per la prima volta nella vita la volgarità minacciosa degli attacchi personali. Robaccia che ti conferma la sensazione di essere un bersaglio da annientare.
Se ne sta accorgendo il capo della Procura di Torino, Gian Carlo Caselli. Aveva una lunga esperienza delle minacce del terrorismo brigatista e della mafia. Ma oggi sembra in preda allo sconcerto nel vedersi inseguito dai gruppi della sinistra antagonista. Si lamenta, invoca la civiltà del dibattito. Tuttavia non ha battuto ciglio quando altri si trovavano, e ancora si trovano, alla prese con lo stesso genere di violenza. Chi deve stare molto attento a non alimentare la caccia al nemico è il più forte dei sindacati italiani, la Cgil. Confesso di non nutrire alcuna simpatia per il suo leader, Susanna Camusso. Capisco che avere alle costole un avversario interno come la Fiom di Maurizio Landini non sia comodo. Ma ho l’impressione che la sua politica, non soltanto sull’articolo 18, sia molto rischiosa per la pace sociale del paese. Almeno quanto i licenziamenti e la chiusura di aziende.
La Camusso e il gruppo dirigente della Cgil hanno scelto la strada degli slogan incendiari. Il contrario di quanto sarebbe saggio fare in un’epoca di recessione molto difficile e che potrebbe durare a lungo. La compagna Susanna sta alimentando una rozza lotta di classe. Rivolta contro chiunque guadagni più di un operaio o di un impiegato. È questo presunto ricco l’uomo nero da indicare al disprezzo del proletariato, in un parola da identificare nel nemico. Dove può condurre la strada dell’agitazione ininterrotta che la Cgil sembra voler perseguire? Lo sbocco è uno solo: il rischio di intossicare il clima del paese. E senza nessuna contropartita, se non quella di innescare una reazione uguale e contraria dei moderati.
Anche il più inerte degli avversari tollera un primo colpo, poi un secondo e pure un terzo. Ma alla fine si sveglia perché l’istinto a sopravvivere non può essere represso all’infinito. Un vecchio detto consiglia: temete l’ira dei calmi.
Quando vedo alla televisione la signora Camusso, con i suoi formidabili occhi azzurri e la mascella quadrata, mentre lancia slogan di battaglia, vengo colto da un sospetto. Forse la leader della Cgil non ha imparato nulla dalla storia italiana di questo dopoguerra. Luciano Lama diceva: «Chi tratta vince». Sono tentato di aggiungere: «Chi grida perde». E qualche volta scompare nell’incendio che lui stesso ha acceso. da Libero del 1/4/2012

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