venerdì 6 giugno 2014

LA VIA GIUDIZIARIA ALLA CORRUZIONE


Arturo Diaconale Prima l'Expo, ora il Mose. Così riparte la linea del “più galera per tutti”. A rilanciarla con l'antico vigore è il redivivo Antonio Di Pietro, del tutto inconsapevole che la sua rivoluzione giudiziaria degli anni '90 si è risolta nel fallimento testimoniato dai successivi vent'anni di nuovi e più clamorosi scandali. A sostenerla all'insegna del “cacciamoli tutti” (quelli delle larghe intese”) è Beppe Grillo, alla ricerca di una facile rivalsa sulla sconfitta elettorale alle europee. E ad avallarla, a nome del ‘partito’ dei media virtuosi di proprietà di banche, finanzieri ed imprenditori che usano i mezzi d'informazione per tutelare i propri interessi, è il fustigatore principe della stampa nazionale Gian Antonio Stella, che invoca la galera a tutto spiano ricordando significativamente che solo lo 0,4 per cento dei detenuti si trova dietro le sbarre per reati economici e fiscali, tra cui la concussione e la corruzione. Ma la soluzione del tangentismo nazionale passa sul serio attraverso l'allargamento delle porte delle carceri? Basta una nuova e più rigorosa legge anticorruzione, destinata ad aumentare le pene per i singoli colpevoli, a dipanare la matassa del malaffare pubblico e privato? E' sufficiente caricare di nuove competenze il Commissario Raffaele Cantone e creare la super-Autority destinata a controllare le altre Autority, le Amministrazioni locali, le Procure e quant'altro per estirpare il cancro che deturpa l'immagine del Paese e fiacca la sua economia? Ciò che i fautori del “più galera per tutti” chiedono è semplicemente di seguire la strada aperta da Mani Pulite. Cioè quella della sola risposta giudiziaria ad un fenomeno che non riguarda solo la responsabilità personale delle persone ma che dipende soprattutto dai difetti genetici e dalla distorsione progressiva delle strutture istituzionali ed amministrative dello Stato.

La risposta giudiziaria al malaffare e alla corruzione può servire ( ma l'esperienza ha dimostrato il contrario) a curare il sintomo. Ma lascia intatte le cause più profonde della malattia, facendo in modo che il morbo rispunti nel tempo in maniera diversa e più virulenta di prima. Non a caso il Procuratore di

Venezia Carlo Nordio ha rilevato che il “caso Mose” nasce dall'intreccio di norme e competenze che, complicando qualsiasi procedura, rendono ogni snodo della lunghissima filiera dei grandi lavori un potenziale centro di metastasi corruttive.
Ma il virtuoso moralizzatore Stella non ha riportato una sola parola di Nordio nel suo fluviale servizio sul Corriere della Sera. E da Grillo a Di Pietro, fino ai rappresentanti dello stesso Governo e di qualsiasi forza politica, nessuno ha raccolto una indicazione che spiega come la strada giudiziaria, pur indispensabile, non possa essere la sola da seguire per risolvere il problema.
Servono le riforme. E dirlo non è benaltrismo ma solo consapevolezza che se insieme alla nuova legge sull'anticorruzione non si vara una nuova normativa semplificatrice degli appalti - e non si accorcia drasticamente la filiera delle competenze tra autorità nazionali e le infinite articolazioni delle amministrazioni locali - non si esce in alcun modo dal budello oscuro in cui vent'anni di giustizialismo ottuso e strumentale ci ha cacciato.
Strumentale? Certo, assolutamente strumentale. Perché non c'è bisogno di essere dei geni illuminati per capire che il malaffare non è solo frutto della scellerataggine degli uomini ma è favorito e moltiplicato da un sistema drammaticamente ed irrimediabilmente distorto. E se si capisce questa banale verità, non si può non sospettare che il giustizialismo ottuso sia servito e possa continuare a servire solo per chi se ne serve, per fare meglio i propri affari sulla pelle dei normali cittadini.

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