Giuliano Cazzola.- La storia non si ripete
mai. Eppure, se davvero è in atto un terzo conflitto mondiale, occorrerà porsi
il problema delle forze politiche che devono guidare il Paese in frangenti
tanto drammatici, di quale strategia seguire e di quale scelte compiere nel
preparare e gestire il dopoguerra. Nel 1945, l’Italia liberata si affidò alla
coalizione dei partiti antifascisti. Ben presto però, in un mondo diviso in
blocchi imperiali, egemonizzati dalle potenze vincitrici, divenne giocoforza
compiere una scelta di campo. L’appartenenza dell’Italia (confermata dalle
libere elezioni nel 1948) al mondo occidentale non si limitò a condizionarne le
scelte istituzionali, ma determinò anche quelle di carattere economico,
riguardanti il modello di sviluppo. La ricostruzione, la ristrutturazione e la
riconversione dell’apparato industriale, drogato da decenni di autarchia e
distorto dalle produzioni belliche, furono orientate verso quei beni di consumo
durevoli la cui domanda era forte sui mercati internazionali. Qui stanno le
radici di quel «miracolo economico» che consentì all’Italia di risollevarsi in
pochi anni dalle devastazioni materiali ereditate dalla guerra. L’insieme di
tali scelte che, nel bene e nel male, furono alla base dell’Italia moderna,
avevano un denominatore comune, quasi un atto costitutivo in senso materiale:
quella che venne definita la conventio ad excludendum. In sostanza, il Paese
poteva essere governato soltanto da forze politiche che accettavano quel
modello in tutte le sue componenti. Le altre erano fuori. Certo, come in un
contesto di cerchi concentri al primo posto veniva la condivisione delle
alleanze politico-militari che contrassegnavano gli ordinamenti internazionali;
alle quali però non erano estranee le grandi
opzioni di politica economica e sociale. I partiti
che si trovavano su posizioni alternative – malgrado libere elezioni e
agibilità democratica – erano esclusi dalle alleanze di governo. La conventio
ad excludendum nei confronti del Pci venne meno, quando, dopo la caduta del
Muro di Berlino, quel partito si schierò apertamente nel campo della democrazia
occidentale ed accettò senza riserve l’economia di mercato. A che cosa si
rivolge questa premessa? A sostenere che, oggi, l’Italia ha davanti a sé,
mutatis mutandis, problemi di analogo spessore. La vera discriminante della
prossima campagna elettorale riguarda la prospettiva europea. Il proseguire
verso un’unione politica e una comune strumentazione di governance (in primo
luogo, con una risoluta difesa della moneta unica), impone contemporaneamente
una forte convergenza per quanto riguarda il risanamento dei conti pubblici. Si
può anche criticare Angela Merkel e, come teme Mario Monti, coltivare
sentimenti anti-tedeschi. È un fatto però – lo notiamo ad un anno di distanza
dalla lettera della Bce del 5 agosto 2011 e nella possibilità che nelle
prossime settimane si debba chiedere l’intervento del fondo Salva-Stati con
annesse sottoscrizione di impegni e conseguenti verifiche – che la politica non
è destinata a cambiare. Se questi sono i fatti, quale credibilità avrà mai un
Paese come l’Italia se, nelle elezioni del 2013, possono prevalere partiti e
schieramenti orientati in senso opposto al contenuto di quegli impegni solenni
che condizionano il sostegno internazionale? Certo, la democrazia non può
essere sospesa in nome della crisi. Ma le forze che credono in una prospettiva
europea e che, pur con tanti mal di pancia, hanno sostenuto il Governo Monti
hanno il dovere di fare fronte comune, dichiarandosi pronti, sul terreno delle
alleanze, ad una nuova conventio ad excludendum nei confronti dei partiti e dei
movimenti che quella linea politica osteggiano. È una battaglia, questa, che
può pure essere perduta, ma che va combattuta fino in fondo.
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