da
Sergio Rizzitiello. Mauro
Mellini, valente studioso dei problemi della giustizia italiana, ha sostanzialmente
scritto un libro "Il Partito dei magistrati" per affermare la tesi
che in Italia si è determinato un Partito dei magistrati non per una sorta di
complotto ordito da un gruppo di magistrati comunisti, ma per un'evidente
distorsione e conseguente estensione arbitraria della funzione requirente e
giudicante. Tale patologica estensione è stata possibile perché il Legislatore,
per carenza giuridica, non è stato, e non è, in grado di scrivere leggi precise
che non lascino un enorme margine di discrezionalità in cui i magistrati
inevitabilmente si sono infilati e tuttora si infilano. Insomma, per
Mauro Mellini, l'attuale patologia della giustizia italiana è nata non seguendo
un disegno eversivo, non per un accordo scientifico per colpire un avversario
politico, ma come "naturale" conseguenza di premesse sbagliate
dovute, paradossalmente, proprio all'incuria, all'incompetenza, alla
superficialità del potere politico, nello specifico, quello legislativo. La
tesi di Mellini ha indubbiamente il merito di spazzare via ogni tentazione di
avvalorare idee complottistiche che di solito sono alimento di ideologie
paranoiche che tendono sempre a confinare l'analisi dei fenomeni sociali a
farneticanti affermazioni superficiali ma soprattutto aggressive. Il
problema sollevato da Mellini è indubbiamente vero: le leggi sono scritte male,
sono imprecise, ambivalenti e lasciano un margine di eccessiva discrezionalità
al magistrato nella loro interpretazione. Spesso nelle cose umane si è
visto come una cattiva premessa ha fatto fallire le intenzioni migliori e che
se queste premesse non sono riformulate, aggiustate, cambiate, possono incidere
in modo catastrofico sui comportamenti umani. L'uomo è un animale facile
alle tentazioni, specie se queste tentazioni sono legate al potere. E' qui che
va spiegata la patologia della magistratura italiana: essa non ha saputo
resistere al fascino del potere, infatti, una volta creatasi l'opportunità per
impossessarsene l'ha subito colta al volo. Tale spiegazione ha però come
importante corollario che il potere resti intatto,
non
sia sottratto, non sia tolto. La politica italiana nella Prima Repubblica era
dominata dalla partitocrazia che aveva una concezione della giustizia
completamente asservita, funzionale al potere che svolgeva. Nei primi anni
settanta, però, per le fortissime contrapposizioni ideologiche tra il PCI e la
Democrazia Cristiana, la giustizia si è voluta contrapporre al potere politico
della maggioranza di Governo, espressa dalla DC, quasi a volersi rendere
autonoma, a voler orgogliosamente rivendicare la sua indipendenza dal potere
politico. Questa rivendicazione però si inseriva subito nella contrapposizione
PCI-DC e fu inevitabile che fosse strumentalizzata ideologicamente dai
comunisti per avere nell'ambito del potere un'arma così potente nelle proprie
mani, un'arma che servisse a rafforzare quell'enorme gruppo di "case
matte" che già erano state prese per conquistare il potere politico
partendo dalla società civile. A farsi punta di diamante di questa operazione è
stata una corrente della magistratura: Magistratura Democratica. Questa
corrente voleva affermare l'autonomia della magistratura non più agendo nella
funzione attribuitagli dalla Costituzione, ma volendo perseguire quei centri
politici e sociali che impedivano, a suo insindacabile parere, la piena
maturità del Paese. Ecco che la magistratura si diede un compito etico che
assolutamente non dovrebbe mai avere, ma che in quella situazione sembrava
essere inevitabile. Tale compito etico può essere seguito magistralmente in un
film di Dino Risi del 1971 " In nome del popolo italiano". Il giudice
istruttore, interpretato da Ugo Tognazzi, pur avendo in mano le prove che avrebbero
scagionato per un'accusa di omicidio, il cattivo industriale capitalista,
interpretato da Vittorio Gassman, decide di farlo condannare, distruggendo
quelle prove.
La verità doveva essere sacrificata, l'accusa di
omicidio era infondata, ma, per il magistrato, la colpa dell'industriale era
molto più grave: egli concorreva al degrado del Paese, lavorava per farlo
restare in una condizione di infantilismo, di egoismo, di corruzione.
Infatti nell'ultima scena, il giudice decide di
distruggere le prove dell'innocenza dell'industriale mentre la città era in
festa per la vittoria di una partita di calcio.
Questi barbari, questi infantili individui, ubriacati
dall'oppio sportivo, dovevano essere corretti da una superiore volontà etica,
rappresentata dal magistrato, che con un'azione forte e decisa li avrebbe alla
fine portatati alla maturità, a una diversa concezione morale: finalmente
cittadini di un Paese come si deve.
La chiarezza del film di Risi è dovuta al fatto che il
regista si indentifica totalmente nel magistrato moralizzatore.
Con Tangentopoli scoppiava drammaticamente tale
processo di moralizzazione operata dalla magistratura, che colpendo
un'oggettiva corruzione partitocratica, voleva "rivoltare l'Italia come un
calzino", per perseguire in realtà un obiettivo che non è certo della
magistratura: il cambiamento politico del Paese.
La furia giustizialista era così cruenta che la
situazione si era indubbiamente ribaltata: il potere politico era ora asservito
a quello giudiziario e il Parlamento, come atto simbolico, decise di rinunciare
all'immunità che fino a quel momento in qualche modo gli aveva dato ancora
quella supremazia sul potere giudiziario che ora invece non aveva più.
Ma il potere politico non aveva la stessa
considerazione, ovviamente, per i nuovi profeti dell'etica.
La sinistra comunista, da sempre infuocata dagli
stessi furori etici, dalla stessa concezione di superiorità morale, addirittura
antropologica, era vista un utile alleato per conseguire sostanzialmente lo stesso
fine operando su due binari paralleli.
Ed ecco inserirsi, clamorosamente, Silvio Berlusconi.
Egli aveva l'ardire di ripristinare di nuovo la
subalternità del potere giudiziario a quello politico o almeno è quello che
così era percepito dai magistrati quando, il ricco imprenditore, capitalista e
borghese, si proponeva di separare le carriere e le funzioni tra Pm e giudici,
riformare il CSM e attuare ALTRE LIMITAZIONI.
Queste limitazioni erano avvertite, in profondità,
come tentativo di bloccare l'azione etica di cui il magistrato, nuovo profeta
di un Paese migliore, si sentiva investito.
Divenne abbastanza "naturale" che le azioni
dei magistrati che si sentivano investiti del sacro fuoco etico, si
concretizzassero in una serie mostruosa di indagini contro Berlusconi al solo scopo
di ribaltare l'esito elettorale per fiaccare e/o impedirne l'attuazione di quei
propositi di riforma che si percepiva non come una modifica di un diverso
assetto dell'ordine giudiziario, ma come il pericolo più grande che si era mai
concepito da quando era iniziata la sacra missione etica.
Dal 1994 a oggi la situazione non è cambiata, si
potrebbe dire che è stata una carrellata di tentativi, o proclami, di riforma
giudiziaria e ribaltoni politici invece attuati, nei quali l'esito elettorale
inizialmente conquistato era inficiato proprio a causa dell'azione giudiziaria
che influiva pesantemente all'interno e all'esterno della compagine politica di
Silvio Berlusconi, tanto da estrinsecarsi in evidenti errori (per paura, per un
ingenuo calcolo di poter gestire l'esistente, di mal riposta fiducia in persone
che avevano concezioni etiche non dissimili da quei magistrati che si volevano
limitare) e in accerchiamento (attacchi demonizzanti di stampa, italiana e
straniera, moralismo bigotto strumentale di nemici politici, avversione
irrazionale per ogni provvedimento legislativo intrapreso).
E siamo a oggi, lo scontro è ora durissimo, frontale,
ma in gioco non è soltanto Silvio Berlusconi, non è tanto il leader di una
forza politica, ma sapere se l'Italia deve essere "eticizzata" da
questi nuovi profeti con vesti di giudici, da questi custodi totalitari che
vorrebbero portare indietro di secoli l'Italia a quando ancora non si era
operata la netta separazione tra morale e politica, legge e morale, a quando
cioè la morale privata era arbitrariamente confusa, anche se non del tutto
identificata, con un'arbitraria e monolitica etica di Stato.
Questi
sono i veri motivi dello scontro e solo persone autoritarie, represse, oppresse
e identificatesi col proprio aggressore, potrebbero volere una vittoria delle
forze oscurantistiche sugli ideali liberali e libertari da conseguire con
pragmatica, ma, proprio per questo, profonda azione riformatrice.
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