Il
nostro Paese tiene in piedi 20 apparati colossali e iperburocratizzati,
trasformatisi negli anni in associazioni per delinquere, fonti di corruzione,
mangiatoie incontrollate
La storia
delle Province da eliminare è lunga. Dura dagli anni Sessanta, quando l'ipotesi
di istituire le Regioni prese corpo come previsto dalla Costituzione (la più
bella del mondo? Ridicolo). Quasi tutti i partiti dell'epoca erano convinti:
dentro le Regioni, fuori le Province, che avrebbero dovuto gradualmente cedere
ogni attribuzione ai nuovi enti. Più che un convincimento generale, era un
assioma. La riorganizzazione cominciò con un trasferimento in massa (inizio
anni Settanta) di personale dalle periferie provinciali ai centri regionali,
che erano privi di dipendenti e non avrebbero potuto fare nulla (non fanno
nulla neanche ora). La Democrazia cristiana, che in materia di gestione del
potere era imbattibile, propose: mentre attendiamo che le Regioni vadano a
regime, concludano cioè la fase di rodaggio, allo scopo di non arrecare disagi
ai cittadini evitiamo di chiudere le Amministrazioni provinciali. Lo faremo tra
alcuni mesi. Le forze politiche all'unisono annuirono. Cosicché enti vecchi ed
enti nuovi convissero e seguitano a convivere, perché quel rodaggio, provvisorio
per definizione, non è mai terminato. In Italia, d'altronde, l'unica cosa
stabile è la precarietà. Ciò detto, va da sé che se le Regioni fossero state
capaci di assorbire le competenze degli enti territoriali destinati a morire,
oggi, anzi ieri, sarebbe stata automatica la soppressione delle Province. Le
quali invece non hanno mai smesso di lavorare, e di rendersi utili, mentre le
sorelle maggiori non hanno neppure principiato a farlo. Il bilancio di queste
ultime parla chiaro: l'80 per cento delle uscite serve per pagare le spese
della sanità, che potrebbero essere saldate comodamente da un ente unico, dato
che il denaro proviene dalle casse dello Stato.
In sostanza, il nostro Paese tiene in piedi 20
apparati colossali e iperburocratizzati, trasformatisi negli anni (come si
evince dalle numerose inchieste giudiziarie in corso) in associazioni per
delinquere, macchine specializzate nello sperpero dei nostri quattrini, fonti
di corruzione, mangiatoie incontrollate, soltanto per garantire al cittadino
una gestione più o meno buona (spesso pessima) della salute pubblica. Viceversa
le Province, il cui smantellamento è stato rimandato per quasi mezzo secolo, si
sono consolidate dimostrando di essere insostituibili per il semplice fatto che
le Regioni non sono attrezzate a sostituirle nel disbrigo delle pratiche
ordinarie.
Ormai però è passato il concetto (sbagliato) che gli
storici enti siano superflui e vadano pertanto urgentemente cancellati, ma non
completamente. In altri termini, stando alla legge appena approvata, essi
muteranno faccia e status, i consigli non saranno più eletti, ma non cesseranno
di svolgere le tradizionali funzioni non delegabili per i motivi già spiegati.
Risultato, tanto clamore per niente. I costi non diminuiranno. Non valeva la
pena di riformare le Province (poiché ciò non porta alcun vantaggio né alcun
risparmio): semmai bisognava rassegnarsi ad «abbattere» le Regioni ovvero a
ridurle a tre o quattro macroregioni, al fine di stroncare il malaffare
endogeno, di cui chiunque ha contezza.
Non c'è un solo ente di questo tipo che non sia
oggetto d'indagini della magistratura e che non abbia contribuito, in misura
spaventosa, all'aumento (insostenibile) del debito pubblico. Siamo consapevoli
di predicare nel deserto. Fra l'altro noi stessi fummo promotori della
soppressione delle Province, in base alle considerazioni espresse all'inizio
del presente articolo. Tuttavia, constatato che le Regioni non sono all'altezza
di supplire alle competenze dei più piccoli enti territoriali (tanto che questi
rimangono in vita sia pure sotto mentite spoglie), decidiamoci a mandarle in
pensione. Smetteranno almeno di fare danni. E i conti dello Stato ne trarranno
enormi benefici
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