lunedì 26 aprile 2010

COME IL PCI SI IMPADRONI’ DELLA MEMORIA DEI FRATELLI CERVI

«Fu Calvino, con i suoi articoli sui sette fratelli Cervi, a trasformare quella famiglia in un’icona “rossa” della Resistenza»

Gli addetti ai lavori, aprendo domenica scorsa l’inserto culturale del “Sole 24 ore”, saranno sobbalzati.  Titolo della copertina: «Italo, Alcide e il mito». Sottotitolo choc: «Fu Calvino, con i suoi articoli sui sette fratelli Cervi, a trasformare quella famiglia in un’icona “rossa” della Resistenza».
Il bello è che tale articolo era firmato da Sergio Luzzatto, uno storico che fino ad oggi si è distinto per le sue veementi polemiche contro i cosiddetti revisionisti (in particolare contro Giampaolo Pansa). Luzzatto scrive che la storia dei sette fratelli reggiani, barbaramente fucilati dai repubblichini il 28 dicembre 1943, diventa un mito epico grazie a una serie di articoli del 1953 di Italo Calvino che «era allora il tipico interprete del “lavoro culturale” svolto per conto del Partito comunista: autore e funzionario della casa editrice Einaudi, collaboratore fisso dell’Unità». Fu «l’eloquenza» degli articoli di Calvino, sostiene Luzzatto, a «spingere i dirigenti nazionali del Pci a lanciare una vera e propria campagna di propaganda, per trasformare i sette figli del cattolicissimo Alcide nella quintessenza del martirologio resistenziale comunista».

Fu Togliatti in persona a guidare l’operazione. Per costruire il mito e  per segnalare agli italiani che la vera storia della Resistenza in Emilia era quella, non l'immagine che cominciavano a darne i partiti anticomunisti con le prime denunce dei crimini nel cosiddetto “triangolo della morte”».
Ne nacque quel libro di memorie di papà Alcide Cervi, I miei sette figli, redatto dal giornalista dell’Unità Renato Nicolai, anche in base «alle direttive della Commissione stampa e propaganda» del partito. Il libro vendette più di un milione di copie, fu per decenni un bestseller e costituì uno dei pilastri della cultura popolare comunista. Luzzatto sottolinea però che il mito creato dall’ “intellighenzia comunista” non era proprio aderente alla storia reale. In quei primi mesi della Resistenza, «i sette fratelli Cervi erano stati tutto fuorché altrettante incarnazioni del “rivoluzionario disciplinato” né erano mancate le frizioni fra loro e i dirigenti locali del Partito comunista clandestino che accusavano i fratelli Cervi di comportarsi da “anarcoidi”».
Luzzatto ha provocato il mal di pancia a Gianni Barbacetto che su Micromega online ieri ha criticato le sue critiche. Pure Repubblica è corsa ai ripari: lo storico, al telefono con Simonetta Fiori, ha chiarito che «la decostruzione del mito nulla toglie alla dimensione eroica dei Cervi». Inoltre Luzzatto fa sapere che non ha nulla a che fare con i «revisionisti peggiori». In realtà il caso non esiste, perché Luzzatto non ha scoperto nulla.  Da quasi venti anni si conoscono «i dissapori fra i Cervi e i comunisti» del Pci reggiano. Inoltre l’articolo di Luzzatto non fa che presentare la riedizione di Einaudi del libro di Alcide Cervi, nella cui introduzione di Luciano Casali c’è già tutto. E c’è pure qualcosa che Luzzatto non menziona. Perché «nel 1971 è successo qualcosa di cui quasi nessuno si è accorto». Casali nota infatti che «se si prende in mano una copia de I miei sette figli nelle edizioni pubblicate a partire dal 1971, ci si rende conto che in tutto il libro non si incontrerà neppure una volta la parola “comunista”, come si imparerà che i sette fratelli non leggevano né diffondevano il giornale clandestino “l’Unità”, né avevano contatti con le organizzazioni politiche e militari del Partito comunista».
In pratica nelle nuove edizioni del libro mancano tutti i riferimenti al comunismo, all’Urss, a Stalin, «cosicché dal 1971 i Cervi non appaiono più a un lettore del libro come “comunisti”,ma come “democratici” e il loro impegno politico non aveva più come scopo quello di costruire una società “comunista”, bensì una società “democratica”».
Ora però conviene ammettere che il mito dei sette fratelli, che Togliatti volle costruire non scandalizza ormai più. Anzi, appare geniale sul piano politico e moralmente ammirevole. Perché il loro eroismo non è inventato.
Perché lui lo usò per isolare la corrente operaista e insurrezionale di Secchia. E perché Togliatti seppe rispettare e valorizzare le radici cattoliche della famiglia Cervi e perfino il loro talento imprenditoriale nella modernizzazione della loro fattoria, per inserire il Pci nella storia cattolica italiana e per parlare al ceto medio emiliano tendenzialmente riformista.
Una grande lezione a tutti gli schieramenti politici di oggi che spiega come fu costruito il più forte Partito Comunista d’occidente. È anche una lezione di intelligenza culturale per i cattolici che non hanno mai valorizzato - per restare proprio alla zona di Reggio Emilia - grandi figure di cattolici della resistenza antifascista e anticomunista come Giorgio Morelli e il “comandante Azor”.

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