Tanto rumore per nulla: un taglio parziale con effetti minimi
sulla spesa pubblica. Non hanno avuto il coraggio
di dare vera potestà fiscale ai municipi, così ci si perde in tentativi per
razionalizzare dall’alto un sistema che invece saprebbe autocorreggersi assai
più efficacemente se gli attori locali (municipi, sindaci, comunità locali)
venissero responsabilizzati.
Deludente su più fronti, in tema
di taglio delle Province la spending review del governo sembra particolarmente
insoddisfacente e promette ben poco di positivo: per più di una ragione.
Innanzi tutto, sarebbe stato importante eliminare finalmente e in maniera
definitiva questi centri di spesa, che da tempo hanno perso una vera ragion
d’essere in quanto vuotati di competenze rilevanti. Mentre bisogna agire con
coraggio ed eliminare l’ente provincia in quanto tale, ci si è perduti in
arbitrari distinguo (numero degli abitanti, dimensioni del territorio, almeno
50 Comuni) che non soltanto mantengono in vita più della metà di queste
strutture, ma aprono la strada a una marea di conflitti e contenziosi. Un’autentica
abolizione delle Province che avesse trasferito a Comuni e Regioni l’insieme
del personale avrebbe fatto risparmiare due miliardi di euro. Al contrario,
secondo la stessa previsione del governo questo taglio solo parziale potrà ridurre
le uscite unicamente di 500 milioni e a giudizio dell’economista Andrea
Giuricin (dell’Istituto Bruno Leoni) tale stima ufficiale appare eccessivamente
ottimistica. Oltre a ciò, mentre un’eliminazione in toto avrebbe definito un
quadro istituzionale chiaro, una simile scelta pasticciata aprirà a molte
controversie con dipendenti e sindacati, rischiando di rendere ancor più
complicata una situazione già ora piuttosto confusa. Per giunta, la riforma
elimina sì una quarantina di piccole Province, ma introduce una decina di città
metropolitane, dando attuazione alla riforma costituzionale del 2001 e
attribuendo rango di città metropolitana non solo a Roma o Milano (come è
comprensibile), ma perfino a
Messina, Trieste e Reggio Calabria. Per quale motivo? L’unica risposta
soddisfacente obbliga a tenere in considerazione le pressioni lobbistiche di
questo o quel gruppo di interesse, di questo o quel localismo. Nell’insieme,
tale vicenda delle Province «salvate» (assai più che «abolite») rappresenta
l’ennesima occasione perduta: l’ulteriore rinuncia a operare un significativo
taglio della spesa. E dietro a questa mancata sforbiciata alle uscite dobbiamo
saper vedere l’incapacità di prospettiva nel ridurre le imposte e nell’aiutare,
in tal modo, un sistema produttivo ormai stremato e vicino al collasso. L’errore
di fondo, a ogni modo, consiste nel continuare a rinviare una vera riforma
federale in tema di fisco e bilanci locali: quel rovesciamento della piramide
che affidi ai singoli Comuni la piena potestà tributaria e lasci a questi
ultimi pure la libertà di definire eventuali consorzi di livello superiore
(qualora lo ritengano necessario). A ben guardare, i difensori dello status quo
sono falsi federalisti proprio perché le Province sono istituzioni «romane»,
fin dal nome, mentre un ordine basato su Comuni liberi in grado di associarsi e
perseguire assieme questo o quello scopo risponderebbe assai meglio alle
esigenze della società civile e alle ragioni delle imprese e delle famiglie. Non
avendo avuto - questo governo esattamente come quelli che l’hanno proceduto -
il coraggio e l’intelligenza di dare vera potestà fiscale ai municipi, ci si
continua a perdere in tentativi, sostanzialmente fallimentari, di
razionalizzare (dall’alto) un sistema che invece saprebbe autocorreggersi assai
più efficacemente e rapidamente se gli attori locali (municipi, sindaci,
comunità locali) venissero responsabilizzati. Le resistenze corporative sono
comprensibili. Quella che si capisce assai meno è l’arrendevolezza del governo:
specie se si considera che l’aumento dello spread ci segnala che sta davvero
per suonare l’ultima campanella. Carlo Lotttieri - Il
Giornale
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