mercoledì 29 febbraio 2012

UNA RIFLESSIONE SUL PDL.


RESETTIAMOLO PURE IL PDL, MA IN NOME DI CHE COSA?

 In questi giorni, il Pdl sta celebrando diversi congressi provinciali: i primi dalla sua fondazione. E ciò va accolto con estremo favore: la democrazia, anche all’interno di un partito, è sempre cosa buona e giusta (per dirla alla Catalano). Tuttavia, ciò che sembra del tutto assente in queste assise è un dibattito serio ed approfondito sull’identità da conferire al partito, sul progetto che si vuole portare avanti, sulla idea di società di cui ci si intende fare promotori. Aspetti nient’affatto secondari e che, anzi, dovrebbero essere alla base di qualunque discussione politica, degna di questo nome, essendone il sale, e da cui nemmeno la scelta di un segretario provinciale dovrebbe mai prescindere. D’altra parte, se in un congresso si appoggia Tizio, anziché Caio, per ragioni diverse dalla condivisione delle sue posizioni, vuol dire che lo si fa semplicemente per interesse: perché si pensa di ricavarne poltrone, cariche ecc. ecc.. E se la politica si riduce a questo, soprattutto in una fase in cui l’antipolitica gode di grande popolarità, si scava la fossa da sola. Il ceto dirigente del Pdl, a qualunque livello, se vuole sopravvivere, ha il dovere di affrontare il tema del profilo identitario del partito. E per due ragioni: 1) perché in questa legislatura ha dato pessima prova di sé, governando male il Paese come mai aveva fatto prima, e compiendo scelte contrarie ai valori di cui, si era sempre dichiarato strenuo difensore dimostrando, con ciò, di non avere alle spalle una solida ed univoca cultura politica di riferimento, un ancoraggio ideologico



chiaro e robusto, e, perciò, rivelandosi succube di personalismi esasperati 2) perché, se fino a ieri l’altro si poteva fare affidamento sulle doti “magiche” del Cavaliere, che tutte le carenze supplivano, da domani questo non sarà più possibile: si verrà votati non più perché si è il “partito di Berlusconi”, ma per il programma che si presenterà, per il progetto di cui ci si farà promotori, per le idee ed i valori che si andrà a difendere; e tutto questo dovrà essere all’altezza delle aspettative degli italiani, i quali, negli ultimi diciassette anni hanno votato Berlusconi non perché vittime di qualche suo incantesimo o per altre ed incomprensibili ragioni, ma solo perché si aspettavano che realizzasse quanto andava loro promettendo: meno tasse, meno burocrazia, meno stato, più libertà. In poche parole: quella Rivoluzione liberale che in Europa era stata attuata da Margareth Thatcher e in America da Ronald Reagan.

Lo hanno votato, per tutto questo tempo non perché incrementasse le tasse, non perché riducesse i già pur bassi indici di libertà economica del Paese, non perché rendesse permeabile l’azione di governo a improbabili conventicole di maneggioni, affaristi, speculatori Niente di tutto ciò. Anche perché la “maggioranza silenziosa” che per tutti questi anni lo ha appoggiato, non è reazionaria o clericale; non è costituita, in prevalenza, da fascisti nostalgici o da conservatori sordi a tutto. La maggioranza che lo ha plebiscitato, è costituita soprattutto da due categorie di soggetti, che rappresentano altrettante avanguardie: gli imprenditori e gli operai. A questa gente interessa un paese dinamico, giovane, brioso, in crescita. Un paese nel quale sia possibile “realizzarsi”; nel quale non siano un miraggio, e men che meno un peccato, l’arricchimento personale e l’elevazione sociale. Un paese che offra, a tutti e soprattutto alle persone di talento, opportunità. Perché mai Cipputi si sarebbe acconciato a votare il Pdl, sennò? Per continuare a farsi un c**o così in fabbrica? Per continuare a non avere possibilità alcuna di riscatto?

Neanche per idea. Lo ha fatto perché era persuaso che Berlusconi incarnasse e garantisse il cambiamento; che fosse intenzionato a ribaltare il paradigma ideologico-culturale che, sin dagli albori della Repubblica, aveva sempre ispirato le scelte di politica economica del Paese: quello cattocomunista. Lui e gli altri chiedevano un cambio di passo e radicale. Chiedevano che l’idea, innanzitutto cristiana, della sacralità della persona e della sua intangibilità, avesse modo di tradursi in politiche che effettivamente mettessero ogni singola persona nella condizione di poter essere, se capace, artefice del proprio destino e libera, fortemente libera, di gestirsi; e non più succube delle vessazioni, degli abusi e delle soperchierie. Chiedevano che la povertà non fosse più una perpetua condanna. E che ad essa si provasse a porre rimedio, se non termine, non come sempre con l’elemosina di Stato, cioè con la redistribuzione fatta in nome dell’egualitarismo e della compassione, che toglie al ricco i soldi e al povero, invece, la dignità ( perché se c’è una cosa che manda in bestia la gente umile, è proprio quella di essere fatta oggetto di carità). Chiedevano, anche qui, un ribaltamento del paradigma politico-culturale. Una vera rivoluzione copernicana. Chiedevano “libertà eguale”: di accedere, al pari di altri più fortunati, al nastro di partenza, quello stesso che il destino aveva impedito loro di osservare se non da lontano, e solo questo. Di poter gareggiare. Ché la vittoria, se ne fossero stati degni e capaci, se la sarebbero aggiudicati da soli e senza l’aiuto di nessuno. Chiedevano un’istruzione seria e di qualità, facilità nel fare impresa; meno leggi e burocrazia; chiedevano un sistema di erogazione del credito non più “castale” e riservato solo a chi avesse potuto offrire garanzie reali o personali, ma incentrato sul valore delle idee. Chiedevano, ancora, di poter essere trattati finalmente quali adulti. E che lo stato non continuasse a considerarli come dei minus habens, ma che si premurasse solo di proteggerli gli uni dagli altri, e mai e poi mai anche da loro stessi. Chiedevano che cessasse quell’abuso chiamato paternalismo. E che nessun legislatore seguitasse a pensarsi intelligente e capace più del comune cittadino, e per questo autorizzato a regolamentargli e organizzargli la vita in ogni minimo dettaglio per il suo bene. Chiedevano di non dover più sottostare alla mafia dei funzionari corrotti, quelli che ti fan capire che se vuoi ciò di cui hai diritto devi sborsare una mazzetta, altrimenti attendi...Chiedevano di avere politiche per la famiglia. Vere. Che in busta paga, al padre e alla madre, per dare di che mangiare ai figli e vivere quantomeno dignitosamente, restassero più soldi e che il risparmio atteso dal drastico dimagrimento dello stato spendaccione fosse loro dato nella forma di minori imposte da versare.

Questo è ciò che chiedevano a Berlusconi. E lo chiedevano a lui, e non ad altri, perché nella storia della Repubblica era stato l’unico ad inserire questi temi nell’agenda politica di un partito, il primo a parlare liberale (se si esclude il Bossi delle origini); il primo a riconoscere dignità ad alcuni diritti naturali, da chiunque altro sempre misconosciuti (i diritti di proprietà); il primo a far annusare qualcosa che profumasse davvero di rivoluzione liberista. Lo hanno votato per questo. Perché questo sembrava essere il suo progetto politico; questa la ragione della sua “discesa in campo”; questa l’identità politica che aveva deciso di dare alle “sua” creatura.

E se davvero si vuole formattare il Pdl – come dicono di voler fare alcuni dirigenti, a cominciare dal giovane coordinatore nazionale dei Club della Libertà, Andrea di Sorte – si riparta dallo spirito del ’94, quello della Rivoluzione liberale e, nelle assise si parli innanzitutto di “identità”. Le idee, il programma, il progetto, la visione della società di cui ci si fa portatori: questo conta, soprattutto. Il resto è contorno o puro cazzeggio.



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