RESETTIAMOLO PURE IL PDL, MA IN NOME
DI CHE COSA?
In questi giorni, il Pdl sta celebrando diversi congressi provinciali: i
primi dalla sua fondazione. E ciò va accolto con estremo favore: la democrazia,
anche all’interno di un partito, è sempre cosa buona e giusta (per dirla alla
Catalano). Tuttavia, ciò che sembra del tutto assente in queste assise è un
dibattito serio ed approfondito sull’identità da conferire al partito, sul
progetto che si vuole portare avanti, sulla idea di società di cui ci si
intende fare promotori. Aspetti nient’affatto secondari e che, anzi, dovrebbero
essere alla base di qualunque discussione politica, degna di questo nome,
essendone il sale, e da cui nemmeno la scelta di un segretario provinciale
dovrebbe mai prescindere. D’altra parte, se in un congresso si appoggia Tizio,
anziché Caio, per ragioni diverse dalla condivisione delle sue posizioni, vuol
dire che lo si fa semplicemente per interesse: perché si pensa di ricavarne
poltrone, cariche ecc. ecc.. E se la politica si riduce a questo, soprattutto
in una fase in cui l’antipolitica gode di grande popolarità, si scava la fossa
da sola. Il
ceto dirigente del Pdl, a qualunque livello, se vuole
sopravvivere, ha il dovere di affrontare il tema del profilo identitario del
partito. E per due ragioni: 1) perché in questa legislatura ha dato pessima
prova di sé, governando male il Paese come mai aveva fatto prima, e compiendo
scelte contrarie ai valori di cui, si era sempre dichiarato strenuo difensore
dimostrando, con ciò, di non avere alle spalle una solida ed univoca cultura
politica di riferimento, un ancoraggio ideologico
chiaro e robusto, e, perciò,
rivelandosi succube di personalismi esasperati 2) perché, se fino a ieri
l’altro si poteva fare affidamento sulle doti “magiche” del Cavaliere, che
tutte le carenze supplivano, da domani questo non sarà più possibile: si verrà
votati non più perché si è il “partito di Berlusconi”, ma per il programma che
si presenterà, per il progetto di cui ci si farà promotori, per le idee ed i
valori che si andrà a difendere; e tutto questo dovrà essere all’altezza delle
aspettative degli italiani, i quali, negli ultimi diciassette anni hanno votato
Berlusconi non perché vittime di qualche suo incantesimo o per altre ed
incomprensibili ragioni, ma solo perché si aspettavano che realizzasse quanto
andava loro promettendo: meno tasse, meno burocrazia, meno stato, più libertà.
In poche parole: quella Rivoluzione liberale che in Europa era stata attuata da
Margareth Thatcher e in America da Ronald Reagan.
Lo hanno
votato, per tutto questo tempo non perché incrementasse le tasse,
non perché riducesse i già pur bassi indici di libertà economica del Paese, non
perché rendesse permeabile l’azione di governo a improbabili conventicole di
maneggioni, affaristi, speculatori Niente di tutto ciò. Anche perché la
“maggioranza silenziosa” che per tutti questi anni lo ha appoggiato, non è
reazionaria o clericale; non è costituita, in prevalenza, da fascisti
nostalgici o da conservatori sordi a tutto. La maggioranza che lo ha
plebiscitato, è costituita soprattutto da due categorie di soggetti, che
rappresentano altrettante avanguardie: gli imprenditori e gli operai. A questa
gente interessa un paese dinamico, giovane, brioso, in crescita. Un paese nel
quale sia possibile “realizzarsi”; nel quale non siano un miraggio, e men che
meno un peccato, l’arricchimento personale e l’elevazione sociale. Un paese che
offra, a tutti e soprattutto alle persone di talento, opportunità. Perché mai
Cipputi si sarebbe acconciato a votare il Pdl, sennò? Per continuare a farsi un
c**o così in fabbrica? Per continuare a non avere possibilità alcuna di
riscatto?
Neanche
per idea. Lo ha fatto perché era persuaso che Berlusconi incarnasse e
garantisse il cambiamento; che fosse intenzionato a ribaltare il paradigma
ideologico-culturale che, sin dagli albori della Repubblica, aveva sempre
ispirato le scelte di politica economica del Paese: quello cattocomunista. Lui
e gli altri chiedevano un cambio di passo e radicale. Chiedevano che l’idea,
innanzitutto cristiana, della sacralità della persona e della sua intangibilità,
avesse modo di tradursi in politiche che effettivamente mettessero ogni singola
persona nella condizione di poter essere, se capace, artefice del proprio
destino e libera, fortemente libera, di gestirsi; e non più succube delle
vessazioni, degli abusi e delle soperchierie. Chiedevano che la povertà non
fosse più una perpetua condanna. E che ad essa si provasse a porre rimedio, se
non termine, non come sempre con l’elemosina di Stato, cioè con la
redistribuzione fatta in nome dell’egualitarismo e della compassione, che
toglie al ricco i soldi e al povero, invece, la dignità ( perché se c’è una
cosa che manda in bestia la gente umile, è proprio quella di essere fatta
oggetto di carità). Chiedevano, anche qui, un ribaltamento del paradigma
politico-culturale. Una vera rivoluzione copernicana. Chiedevano “libertà
eguale”: di accedere, al pari di altri più fortunati, al nastro di partenza,
quello stesso che il destino aveva impedito loro di osservare se non da
lontano, e solo questo. Di poter gareggiare. Ché la vittoria, se ne fossero
stati degni e capaci, se la sarebbero aggiudicati da soli e senza l’aiuto di
nessuno. Chiedevano un’istruzione seria e di qualità, facilità nel fare
impresa; meno leggi e burocrazia; chiedevano un sistema di erogazione del
credito non più “castale” e riservato solo a chi avesse potuto offrire garanzie
reali o personali, ma incentrato sul valore delle idee. Chiedevano, ancora, di
poter essere trattati finalmente quali adulti. E che lo stato non continuasse a
considerarli come dei minus habens, ma che si premurasse solo di proteggerli
gli uni dagli altri, e mai e poi mai anche da loro stessi. Chiedevano che
cessasse quell’abuso chiamato paternalismo. E che nessun legislatore seguitasse
a pensarsi intelligente e capace più del comune cittadino, e per questo
autorizzato a regolamentargli e organizzargli la vita in ogni minimo dettaglio
per il suo bene. Chiedevano di non dover più sottostare alla mafia dei
funzionari corrotti, quelli che ti fan capire che se vuoi ciò di cui hai
diritto devi sborsare una mazzetta, altrimenti attendi...Chiedevano di avere
politiche per la famiglia. Vere. Che in busta paga, al padre e alla madre, per
dare di che mangiare ai figli e vivere quantomeno dignitosamente, restassero
più soldi e che il risparmio atteso dal drastico dimagrimento dello stato
spendaccione fosse loro dato nella forma di minori imposte da versare.
Questo è
ciò che chiedevano a Berlusconi. E lo chiedevano a lui, e non ad
altri, perché nella storia della Repubblica era stato l’unico ad inserire
questi temi nell’agenda politica di un partito, il primo a parlare liberale (se
si esclude il Bossi delle origini); il primo a riconoscere dignità ad alcuni
diritti naturali, da chiunque altro sempre misconosciuti (i diritti di
proprietà); il primo a far annusare qualcosa che profumasse davvero di
rivoluzione liberista. Lo hanno votato per questo. Perché questo sembrava
essere il suo progetto politico; questa la ragione della sua “discesa in
campo”; questa l’identità politica che aveva deciso di dare alle “sua”
creatura.
E se
davvero si vuole formattare il Pdl – come dicono di voler fare
alcuni dirigenti, a cominciare dal giovane coordinatore nazionale dei Club
della Libertà, Andrea di Sorte – si riparta dallo spirito del ’94, quello della
Rivoluzione liberale e, nelle assise si parli innanzitutto di “identità”. Le
idee, il programma, il progetto, la visione della società di cui ci si fa
portatori: questo conta, soprattutto. Il resto è contorno o puro cazzeggio.
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