Nel Foglio di domani diamo un’informativa di Salvatore Merlo, e altre ne daremo nelle prossime settimane e mesi, sulla “politica” italiana, termine che da domani sul Foglio sarà messo rigorosamente tra due virgolette. E’ abbastanza interessante sapere con quali trucchi il senatore professor Monti riuscirà a definire la composizione del suo ministero di tecnici al servizio di un governo del presidente, quale programma di riforme intenda realizzare, quanto equilibrio nelle scelte istituzionali saprà esercitare, a chi affiderà le sorti di poteri delegati importanti che dipendono dall’esecutivo, come gestirà problemini quali la malagiustizia o la politica estera succube di una provocatoria ondata di prepotenza franco-tedesca. Ma il mio sconcerto, la mia protesta, la nostra impossibile ma necessaria rivolta vanno molto al di là della nuova “politica” italiana e delle sue curve pericolose, dei suoi nuovi arabeschi tecnocratici.Io sono fatalmente colpito dalla facilità, anzi dal facilismo, dalla disinvoltura, dall’inconsapevolezza persino, con cui tendiamo a mettere tra parentesi, a considerare una questione di principio buona per discussioni accademiche, il problema della sospensione della democrazia fondata sull’autogoverno. A parte i soliti amici Panebianco e Ostellino, sui giornali, e qualche voce isolata nella politica senza virgolette e nella cultura, tutti gli altri sono già lì che strologano: ce la farà, e con quali maggioranze riformatrici, e con quali rapporti di forza, e durando quanto tempo, e con quale ruolo per Berlusconi e per Bersani, e per tutti gli altri ambiziosi pretendenti, ce la farà il professore senatore a sistemare le questioni economico-finanziarie e politiche di questo paese? E lo spread, che farà? E le pensioni, si toccano? E’ già clamorosamente in secondo piano, ma non
per noi, non per me, il fatto che tutte queste cose saranno decise in modo oligarchico e non democratico, con la messa in mora della majority rule, la regola della maggioranza, tenendo a casa venticinque milioni di italiani titolari del diritto elettorale di decidere chi deve risolverle, queste cose. Due anni di Lamberto Dini hanno prodotto anche cose buone, perché negarlo? E anche a Monti potrà succedere di produrre cose buone. Whatever works, basta che funzioni, come dice la formula nichilista resa cinematograficamente famosa da uno degli ultimi film di Woody Allen. Ma la democrazia politica è un’altra cosa. Noi siamo tornati ad essere una house divided, una casa divisa al suo interno, come l’America ferita dalla schiavitù nel sud e dall’abolizionismo nel nord, come la Francia legittimista di Vichy e quella libera di De Gaulle. Mai gli americani, i britannici e altre nazioni civili sospenderebbero la regola della democrazia per fronteggiare i mercati. L’Italia con il governo Monti, che nasce dalle ottime intenzioni e dai riflessi condizionati di Napolitano, e dal getto della spugna di Berlusconi (umanamente comprensibile, politicamente dolorosissimo), si condanna a una condizione paurosa di minorità costituzionale, una democrazia in braccio agli ottimati. Oltre tutto, la crisi del debito pubblico italiano è la menzogna che ha reso possibile questa comoda soluzione per un’Europa in crisi di leadership e di idee, e la guerra di Libia ne è stata l’antemarcia neocoloniale, la prova generale. Ce lo ha spiegato un economista ebreo americano di genio, Paul Krugman: il peccato originale è a Francoforte, Bce, e nell’asse bancario Berlino-Parigi. Ma nemmeno Berlusconi è stato a sentirlo. Nemmeno lui. Ci piace nel nostro basso guicciardinismo una soluzione purchessia, anche fondata sulla rinuncia all’autogoverno, basta che funzioni. E non funzionerà. © - FOGLIO QUOTIDIANO
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