NO A GOVERNO DI UNITA’ NAZIONALE
Macché governo “di unità nazionale”. L’occasione d’oro affiorata dalla melma della crisi è troppo importante per affogarla nell’inconcludenza degli auspici retorici. Sarebbe come se il 31 maggio 1947 De Gasperi e Einaudi avessero commesso l’errore di identificare la rinascita nazionale con la corresponsabilizzazione della sinistra socialcomunista. Scopo sacrosanto, ma mezzo sbagliato. Il mezzo giusto fu invece identificato con la cacciata della sinistra all’opposizione, per dar luogo alla nascita di un credibile “governo di rinascita nazionale” composto da democristiani e indipendenti liberali. La destra fornì alla Costituente gli 8 voti di maggioranza indispensabili per la nascita del governo destinato a intercettare la volontà di riscossa degli italiani e ad aprire le sue vele al vento del 18 aprile. Ci risiamo. Vi sono le condizioni perché il governo di centrodestra, provato dalla sventura e dalla predicazione sfascista degli avversari, conosca la sua primavera nell’inverno del finale di legislatura. Passata la manovra che ha corrisposto alle attese dell’Europa, placati i mercati dal fiume di dollari deviato dalle maggiori banche centrali del mondo per dissetare gli istituti di credito europei, si apre il varco all’iniziativa del governo per velocizzare la ripresa della crescita. Tutti i contributi al successo dell’impresa sono graditi, nessuno è indispensabile. Libera la sinistra, ossessionata da Berlusconi, di riporre ogni sua speranza in continui rilanci della scommessa catastrofista sull’esito mortale della crisi italiana. Gli elettori giudicheranno, a tempo debito.
Tocca al governo il compito di attivare l’intera panoplia delle politiche sviluppiste, senza farsi distrarre dal chiasso ostile delle opposizioni. L’arrivo dei dollari per il credito alla produzione, segna la vittoria della giusta paura della stagnazione sul tradizionale orrore tedesco di un’inflazione che non c’è, e rimanda alle condizioni di partenza del degasperiano governo di salvezza nazionale. Come allora, la carta vincente è l’attivazione di tutte le forze a disposizione della crescita nazionale. È l’ora di mettere mano alle riforme chieste dall’Europa, fin qui sabotate dagli egoismi corporativi e dalla preminenza dell’allarme per l’offensiva lanciata anche contro l’Italia per colpire l’euro.
I propellenti della crescita sono quelli noti: opere pubbliche, liberalizzazioni dei servizi (compreso il superamento degli effetti nefasti del referendum sui servizi idrici), internazionalizzazione delle imprese, procedure rapide di dismissione del patrimonio pubblico in funzione della riduzione del debito. Nonché le garanzie di mobilità del mercato del lavoro, avviate dal controverso articolo 8 del decreto, che dà spazio alla riorganizzazione del processo produttivo. Già in atto, come dimostra la tenuta del Pil nel secondo trimestre e il relativo dinamismo delle nostre esportazioni, mentre i nostri concorrenti segnano il passo. Altro che declino. La barca va e meglio andrà issando lo spinnaker delle riforme.
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