Napolitano come autorità morale della nazione? Non
mi piace l’idea che viene prospettata sempre più spesso da giornali e sondaggi
e vagheggiata implicitamente pure dal cardinal Bagnasco, a proposito della
vicenda di Melfi. Napolitano è un funzionario dello Stato, il primo in quanto
presidente della Repubblica. Mi auguro che faccia quel rispettabile mestiere in
modo super partes, come un notaio, non come lo sta facendo adesso, vistosamente
impegnato a tessere delle sue politiche (per esempio verso la Lega) con modi
ovattati e furbi che ricordano la sua precedente vita nel Pci di Togliatti. Riconosco
che certe volte si è mostrato super partes e non mi pare che sia, dal punto di
vista caratteriale, livoroso e ampolloso come il pessimo predecessore Scalfaro.
A differenza di costui, Napolitano, essendo ateo, non si ritiene il padreterno.
E’ già qualcosa. Ma quanto a “padri
della patria” e autorità morali, se permettete, guardo altrove. A
Napolitano personalmente preferisco il suo opposto speculare: mio padre,
Silvano, che ha passato tutta la vita a “combattere i Napolitano”. I due hanno fatto una vita antitetica. Sono
nati entrambi nel 1925. Napolitano in una famiglia benestante che lo ha fatto
studiare, mio padre in una famiglia di minatori, che a nove anni gli ha fatto
lasciare le elementari e lo ha mandato a guadagnarsi il pane. Nel
1938-39, a 14 anni, Napolitano fu iscritto al liceo classico Umberto I di
Napoli e mio padre alle miniere di carbone di Castellina in Chianti. Nel 1942 Napolitano entrava all’università,
facoltà di Giurisprudenza, e mio padre, desideroso di studiare, usava il poco
tempo fuori della miniera leggendo i libri datigli dal parroco del paese.
In questi anni di guerra Napolitano si iscrive al
Guf, il Gruppo universitario fascista, collaborando col settimanale “IX
Maggio”. Mentre mio padre approfondisce la sua fede cattolica e comincia a
detestare la barbarie della guerra, l’ingiustizia che vede attorno a sé e le dittature.
Nel 1945
Napolitano aderisce al Partito Comunista italiano e mio padre prende contatto con la
Democrazia cristiana. Nel 1947 Napolitano si laurea e partecipa alle epiche
elezioni del 1948, a Napoli, come dirigente del Pci di cui Togliatti è il “commissario”
e Stalin il padrone indiscusso.
Mio padre vive quelle elezioni – decisive per il
futuro e la libertà dell’Italia – facendo campagna elettorale per la Dc nella
terra più rossa d’Italia, prendendosi insulti e minacce (che per fortuna
rimangono tali dal momento che a vincere è la Dc).
Nel 1953
Napolitano viene eletto deputato del Pci e come tutti i dirigenti comunisti che non hanno
mai lavorato un giorno in una fabbrica, in un campo o in una miniera pretende
di rappresentare i lavoratori italiani e di parlare a nome loro.
Nello stesso anno mio padre, che lavoratore lo
era, in un incidente di miniera subisce l’amputazione di una mano e rischia di
morire dissanguato (salvato solo dal gelo della notte invernale che ghiacciò il
sangue e lo fermò).
In quel 1953
morì Stalin.
Il più sanguinario e longevo dei tiranni aveva soggiogato con i carri armati
metà Europa e minacciava pure l’Italia, ma il Pci lo faceva venerare alle masse
come il più grande benefattore dell’umanità.
Il giorno dopo la sua morte, infatti, il 6 marzo
1953, “l’Unità” uscì con questa monumentale prima pagina: “Stalin è morto.
Gloria eterna all’uomo che più di tutti ha fatto per la liberazione e per il
progresso dell’umanità”.
Seguivano pagine e pagine di encomi adoranti. Mio
padre che già nel 1950 era riuscito a procurarsi una copia di “Buio a
mezzogiorno” di Arthur Koestler, cercava di spiegare la verità su questo
bestiale tiranno a tanti suoi compagni di lavoro, imbrogliati dalla propaganda
del Pci, partito complice di Stalin e propalatore in Occidente dalle sue
stomachevoli menzogne.
Fior di intellettuali e politici che in quei
decenni avevano tutti i mezzi per riconoscere cos’era il comunismo e
denunciarne gli abomini (anche perché si recavano in Urss) si rifiutarono
di farlo, continuando a prendersi gioco di milioni di lavoratori, a farsi beffe
della loro povertà, dei loro sogni, nutrendoli di odio e di un’ideologia
violenta che rubava loro perfino l’anima: la fede in Dio.
Nel 1956 i
carri armati sovietici schiacciarono nel sangue il moto di libertà dell’Ungheria. Il
Pci e l’Unità applaudirono i cingolati del tiranno e condannarono gli operai
che chiedevano pane e libertà come “controrivoluzionari”, “teppisti” e
“spregevoli provocatori”.
Napolitano – che era appena diventato membro del
Comitato centrale del Pci per volere di Togliatti – mentre i cannoni sovietici
sparavano fece questa solenne e memorabile dichiarazione: “L’intervento
sovietico ha non solo contribuito a impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e
nella controrivoluzione, ma alla pace nel mondo”.
Passano gli anni e Napolitano diventa uno dei
leader più importanti del Pci, mentre l’Urss delle mummie di Breznev continua a
soffocare la libertà dovunque, dalla Polonia alla Cecoslovacchia, dal Sud est
asiatico all’Africa, all’Afghanistan.
Mio padre, che alla mia nascita era disoccupato
per la chiusura delle miniere ed era passato a fare un altro lavoro operaio,
dedicherà molte energie alla militanza politica (nella Dc contro il Pci), alla
militanza sindacale e alle opere di solidarietà cattoliche, ma anche alla
letteratura e alla pittura.
Da lui, negli anni Settanta, a 14 anni, ho
imparato i fondamentali della politica. E quello che fa un uomo degno di questo
nome. Scoppia il caso Solzenicyn e leggo un suo pamphlet “Vivere senza menzogna”
e poi “Arcipelago Gulag”. Mio padre me lo indica come un uomo vero.
Al liceo che frequento, pieno di figli di papà di
estrema sinistra, lo chiamano invece “fascista”. Per il Pci è un reazionario.
Napolitano sull’Unità definisce “aberranti” i giudizi politici del
dissidente russo e spiega che esiliarlo era la “soluzione migliore”.
Di errore in errore il Pci di Napolitano continua
a professarsi comunista fino a farsi crollare il Muro di Berlino in testa nel
1989. In un Paese normale quando quell’orrore è sprofondato nella
vergogna e il Pci ha dovuto frettolosamente cambiar nome e casacca, tutta la
vecchia classe dirigente che aveva condiviso con Togliatti e Longo la
complicità con Stalin e l’Urss, avrebbe dovuto scegliere la via dei giardinetti
e della pensione. Anche per l’età ormai avanzata.
In Italia accade il contrario. Avendo sbagliato
tutto, per tutta la sua vita politica, Napolitano diventa Presidente della
Camera nel 1992, ministro dell’Interno con Prodi, senatore a vita nel 2005
grazie a Ciampi e nel 2006 addirittura Presidente della Repubblica italiana.
Mio padre muore nel 2007, in una casa modesta, a
causa della miniera che gli ha riempito i polmoni di polvere di carbone che, a
distanza di decenni, lo porta a non poter più respirare.
Mio padre fa parte di quegli uomini a cui si deve
la nostra libertà e il nostro benessere, ma la loro morte – come scriveva Eliot
– non viene segnalata dai giornali.
Gli onori invece vanno a coloro che vengono da
quel comunismo che per anni ha minacciato la nostra libertà. Sono questo tipo
di uomini a essere considerati autorità morali e padri della nazione.
L’Italia ha avuto il più forte e pericoloso Pc
d’Occidente, che è stato una delle grandi sciagure della nostra storia. Ma
ancora oggi sembra non si possa dire.Napolitano è il primo Capo dello Stato
proveniente dal Pci. E l’Italia è l’unico Paese dell’Occidente ad aver fatto
una scelta simile. Del resto assai contrastata. Infatti fu eletto da metà
parlamento, che rappresentava una minoranza degli italiani.
All’inizio sembrò tenerlo presente e guadagnò
consenso tenendosi super partes. Oggi assai meno. Il protagonismo politico di
Napolitano si fa sempre più evidente. E arrivano anche sermoni moraleggianti e
richiami da padre della Patria.
Vorrei dirgli: no grazie, ce li risparmi. Abbiamo
altri padri. Antonio Socci (
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